Quando si diventa genitori. Riflessioni sull’attesa tra paure e speranze. Qual è il senso di questo tempo?

Difficilmente vi troverete a chiedere a due genitori adottivi: “come è stata l’attesa?”, a meno che non siate voi stessi una coppia aspirante adottiva.
Più facile che si chieda loro come è stato quell’incontro: il vederlo la prima volta1.

  1. Talvolta rimanendo delusi perché riuscivamo solo ad immaginare emozioni intense e lacrime di felicità, mentre per la prima volta si incrociavano quegli sguardi, insieme agli odori e al calore, ma non è sempre così. Anzi. A volte la scintilla non scocca o quell'incontro a tutto fuorché qualcosa di romantico

Ma prima di quel momento c’è stato un tempo, che spesso anche mentre lo si attraversa gli stessi amici e familiari fingono di non vedere, perché carico di dolore: in cui il sogno rischia di diventare solo una speranza sempre più tenue.
Dimentichiamo che prima di quell’incontro ci sono state due ferite2, tante decisioni, tante paure, tante speranze, tante lacrime. Ma soprattutto tante incertezze.

2. Infertilità e abbandono

Ecco l’attesa è quel tempo che va da una ferita certa a un possibile incontro. Desiderare che un sogno si avveri fa subito scattare il cronometro del tempo dell’attesa, un tempo indefinibile in cui anche un minuto può risultare lunghissimo, figuriamoci un mese o un anno. Può creare pensieri di ogni tipo: dalla speranza di realizzare il sogno di una vita alla frustrazione di non riuscirci3. Intraprendere il percorso verso l’adozione non significa adottare con certezza, né tantomeno sappiamo quanto dovremo aspettare.

3. I genitori adottivi che hanno dato la loro disponibilità alla sola adozione nazionale lo sanno bene perché lo scorrere del tempo ha una scadenza che sembra lontana. Ma tre anni sono un soffio alla fine. In internazionale non c'è questa scadenza temporale, ma nessuno ci potrà garantire che andrà tutto bene

Prima di quella attesa, però, ci sono state altre attese. Quella di un figlio naturale. Poi quella della via medica e quella dell’accettazione. Poi l’attesa dei Servizi Sociali, che a volte si deve attraversare più di una volta.
Quanto tempo si passa concentrati a cercare di raggiungere l’obiettivo, a cercare di capire, di sapere. Ribaltati come dei calzini da estranei che mettono le mani nella nostra vita. Ma cosa vogliono sapere? Che cosa c’entra l’anno che mi hanno bocciato a scuola con il mio essere papà? Cosa c’entra che ero una studentessa modello con il mio essere mamma?
Corriamo. Leggiamo. Ci arrabbiamo. Mettiamo crocette su schede sanitarie e disponibilità. Ma perché se diciamo che vogliamo un figlio piccolo non va bene? Se però lo vogliamo grande non va bene lo stesso? E poi quando spediscono la relazione? E poi come si fa a scegliere l’ente?
Finalmente è iniziata l’attesa, quella dove il telefono non squilla.

Ma cos’è l’attesa? Non è un evento critico dell’adozione. Un intoppo che a qualcuno capita. È un dato di fatto, un tempo che inevitabilmente dobbiamo attraversare. Lungo o meno lungo che sia4. Vorremmo evitarlo, per non affrontare tutto il peso di quell’altalena di delusioni e speranze, di decisioni da prendere mentre in realtà siamo in balia di decisioni di altri. Sospesi tra la felicità di aspettare un figlio e il parlarne sempre meno perché abbiamo paura che non accada. Lacrime e abbracci.
Ma poi cosa vuole dire “fare spazio dentro di me”? E che ne so di cosa vivrò quando nostro figlio farà… o dirà…? Come faccio a saperlo se non è qui con noi?!?!
A volte fatichiamo a pensare che questo possa essere anche un tempo necessario. È un tempo e un luogo dove piano piano un estraneo, talvolta uno straniero, un altro da me, diventa parte di me. Il centro dei miei pensieri, il perno del mio sentire.
Noi pensiamo di dover rispondere a Servizi e ai Tribunali, ma in realtà le risposte che diamo sono il nostro sentire, il nostro pensiero. Pensiamo se invece degli operatori ci fossero i nostri figli: Cosa vorrebbero sentirsi dire? Cosa vorrebbero che noi rispondessimo? Cosa vorrebbero fossimo capaci vedere? Siamo capaci di darle queste risposte?5

4. dal giorno in cui decidiamo di avere un figlio al giorno che incontriamo nostro figlio possono passare anche 10 anni o più

5. che più che basate sulla conoscenza sono basate sul sentire

In questo spazio e in questo tempo possiamo imparare a conoscere lui attraverso le storie, attraverso i racconti di chi a lui, a volte, assomiglia, di chi come lui ha vissuto quell’esperienza. Impariamo a guardarlo, Impariamo a capirlo.
Posso imparare a capire me. A vedere chi sono. Come mi muovo nella fatica, come mi rialzo, cosa mi abbatte. Imparo a sentire come suona dentro di me tutto questo. Imparo a sentire come sento mio figlio. A mettere ordine dentro di me perché quando c’è ordine c’è più spazio e trovo meglio tutto quello che mi serve. C’è bisogno di tempo per fare tutto questo6. Ecco che l’attesa diventa allora un tempo necessario. E ricco. Un tempo che può essere un grande alleato della nostra adozione.

6. ogni percorso ha una sua storia, ed è una storia unica

Ma se è necessario, da cosa è fatto questo tempo?
Come abbiamo detto è un tempo che ha origine da lontano, dal desiderio di quel figlio che non arriva. Alla fine, dopo le mille corse e i mille adempimenti, l’attesa è un tempo dentro cui tutto si scolorisce. Come una goccia d’inchiostro nel mare. Non ci sono più cose da fare. È un tempo che non ha norme che lo regolano. Non ci sono procedure da seguire che ne definiscono un confine. Il perché.
Noi pensiamo che l’attesa sia un tempo da misurare. Un tempo che speriamo non sia troppo lungo. Anche se leggiamo di chi… e poi sentiamo di chi…. E facciamo fantasie.
Sapevamo che fino a qualche anno fa l’attesa durava circa due anni. Oggi sappiamo che ha una durata variabile tra i 3 e i 6 anni.

Ma l’attesa non è quel tempo che deve passare. È un tempo fluido che scorre dentro, un tempo intimo, diverso per ognuno. È paura. È ansia. È speranza, incertezza, vuoto, noia, rabbia, impotenza, disorientamento, aspettative. Attesa è scegliere, prendere decisioni. È ingiustizia. È preoccupazione, insicurezza. Saper vedere il futuro. Abbracciarsi. Sentirsi incapaci e accettare di starci qualsiasi cosa accada.
È gestire queste emozioni mentre intanto lavoriamo, ci relazioniamo agli altri, rassicuriamo chi ci sta attorno, evitando di pesare su di loro. Andiamo in vacanza. Risolviamo una grana col condominio.
Tutto questo ha a che fare con l’essere genitore. Ognuna di queste emozioni e di questi stati d’animo pervade il nostro essere genitori. Con l’unica differenza che nell’attesa abbiamo la possibilità e lo spazio per poterle guardare e ascoltare. Domani dovremo farlo mentre cerchiamo di accogliere quelle di nostro figlio.

Di norma quando parliamo di attesa immaginiamo un tempo fermo. Delle valigie su una panchina della stazione con lo sguardo al tabellone degli arrivi
Attesa, dal latino ad-tèndère. Tendere verso. Non è stare fermi che arrivi qualcosa ma un andare verso qualcosa7. Diventare soggetti attivi di quel tempo e non subirlo passivamente.
Non possiamo stare fermi in attesa di quella telefonata, di quell’aereo che finalmente decolla. Sarebbe snervante. Alzarsi ogni mattina con quella tensione e andare a letto a sera con la delusione che quel giorno non è stato “il giorno in cui…”.
Dobbiamo dare significato al presente. Dare un senso a questo tempo. Far crescere il nostro essere genitori. Come in una gravidanza biologica pian piano, seppur in un tempo definito, un feto diventa un bambino così in quella adottiva, dove molto probabilmente il figlio atteso è già nato, è il genitore che cresce. Che muove i suoi passi incontro al figlio, cercando di vederlo per farlo sentire visto. Oggi lo facciamo attraverso le nostre emozioni, le nostre fantasie, perché domani non interferiscano con quelle di nostro figlio.

7. In fondo andiamo a prendere nostro figlio. All'esperienza già dolorosa e drammatica delle famiglie in attesa per due anni dopo l'abbinamento in Congo si è aggiunta la perdita, per i genitori e per i figli, di quel viaggio per andare incontro al figlio. Viaggio carico di significati emotivi, esperienziali e simbolici. In quel caso è stata un attendere che qualcuno me lo portasse. Conoscendo le storie è stata una ulteriore ferita. Una ulteriore perdita

Ma allora cosa posso fare se non c’è niente di pratico da fare?
In primo luogo abbiamo detto che questo tempo è uno spazio di emozioni. Un tempo dove imparare a conoscerle e gestirle. Emozioni che non pensavamo nemmeno avere.
Ci sono gruppi, dove altri genitori stanno affrontando, in momenti uguali o diversi, la nostra stessa particolare gravidanza. Dove possiamo confrontarci, riconoscerci, sentire che quello che ci sta accadendo accade anche ad altri. Siamo diversi, ma normali. Le nostre fatiche sono quelle degli altri. Le nostre paure quelle degli altri.


Ci sono situazioni in cui magari, ora liberi dai giudizi delle istituzioni, possiamo sentire il bisogno di affrontare un tema dell’adozione, o della nostra vita, o un particolare vissuto, individualmente con uno psicologo. O magari come coppia sentiamo la necessità di essere sostenuti per trovarci ancora più solidi o vogliamo sciogliere quel dubbio o quella domanda che a fatica riusciamo a farci tra noi perché sappiamo essere pericolosa. Uno spazio quindi per entrare più in profondità e nell’intimità del nostro sentire.
Poi ci sono le coppie adottive che spesso sono disponibili ad accogliere e a raccontarsi come qualcuno ha fatto con loro o avrebbero voluto avessero fatto. Per capire che l’adozione è anche fatta di normalità e quotidianità. Di lentezza, oltre che di accelerazioni improvvise.


Inoltre ci sono libri, ma questa volta abbiamo tempo. Possiamo leggerli per piacere, per cullarci, per informarci. Coi nostri tempi. Lasciandoci alle spalle quella ossessiva ricerca del libro illuminate, dispensatore di tutte le risposte. Leggere, lasciarci contaminare, perturbare. Perché più spesso i libri sull’adozione non sono manuali ma contenitori di esperienze, di emozioni e di saperi. Raccontano non spiegano.


Poi possiamo continuare a seguire incontri e serate sull’adozione. C’è sempre bisogno di approfondire. Di conoscere. Di farci stimolare da nuovi argomenti, da nuove visioni.
Qualcuno fa volontariato nelle case famiglia o nelle comunità con bambini che hanno vissuto o stanno vivendo esperienze traumatiche. Un modo per accostarsi ad un universo che fino a quel momento era rimasto solo dentro lettere su carta. Avvicinarsi a quegli odori, quei colori, quella capacità dei bambini di guidarci o di metterci in difficoltà. Così per imparare a metterci in ginocchio. Perché non si è genitori seduto su una sedia in cerchio o davanti ad una scrivania.
È tempo in cui possiamo aiutare anche i nostri familiari o i nostri amici ad entrare nel mondo dell’adozione. Perché possano così accogliere meglio nostro figlio. essere pronti a farlo entrare in famiglia. Ad inserirlo nell’albero genealogico e nell’asse ereditario.
Ma soprattutto è anche tempo di riposarci. Per programmare vacanze, per coltivare interessi e passioni. Per viverci come coppia lasciando un po’ nostro figlio nella sua stanza, ora che possiamo farlo. È un tempo in cui possiamo fare gite e sdraiarci al sole. Un tempo per coltivare e arricchire la nostra vita di tante cose in cui potremo accogliere nostro figlio.

L’attesa è quindi un tempo in cui camminare, la possibilità di mutare un vuoto in uno spazio che trasforma lo sguardo, in cui la curiosità prende il sopravvento sul desiderio.
Per essere genitori non bisogna essere preparati ma diventa necessario essere pronti. Pronti a mettersi in gioco qualsiasi cosa accada. Perché essere genitori non è sapere e conoscenza ma essere ed esserci. Consapevolmente.

Scritto insieme alla collega dr.ssa Silvia Viganò – Già pubblicato sul Sito di Genitori si Diventa – gennaio 2021 – https://www.genitorisidiventa.org/notiziario/quando-si-diventa-genitori-riflessioni-sullattesa?fbclid=IwAR0YEeCb4AHSOQkSCJYgZNbvbhxCx-bUaythCwyHiLBMon-Z7RwbXKLRFH8